Robert Bresson (1901-1999), unanimemente riconosciuto come uno dei registi europei più importanti della storia del cinema, non è riconducibile ad alcuna scuola o movimento: il suo stile, totalmente originale, è stato influenzato dai suoi studi filosofici e religiosi. I suoi film affrontano spesso i temi del peccato e del perdono, rappresentando personaggi in lotta con le loro credenze e con il mondo che li circonda. La sua tecnica di “coscienza cinematografica” ha avuto una profonda influenza su molti cineasti successivi e ha contribuito a definire il movimento del cinema d’autore.
Nato a Bram, in Francia, Bresson iniziò la sua carriera come artista visivo e regista teatrale prima di dedicarsi al cinema. Infatti, è stato anche raffinato scenografo, oltre che sceneggiatore, di quasi tutti i suoi lungometraggi.
Il suo primo lungometraggio, La conversa di Belfort (1943), è la storia di una dolorosa vocazione e già mostra il suo approccio unico alla narrazione e alla recitazione. La visione giansenista dell’autore, secondo cui solo la Grazia, elargita a imperscrutabile volontà di Dio, può salvare l’uomo ed il mondo, trova compimento ne Il diario di un curato di campagna (1951) tratto dal romanzo di Georges Bernanos, che racconta la breve vita di un giovane sacerdote che, annichilito dai mali del mondo, trova conforto solo nell’autoflagellazione. Questo film è considerato uno dei punti più alti della sua cinematografia, e ottiene il Leone d’Oro a Venezia. Del 1956 è Un condannato a morte è fuggito (premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes), tratto da un racconto autobiografico di André Devigny Bresson e metafora della fuga da un carcere nazista come lotta del protagonista contro la propria debolezza. Pickpocket (1959) è uno dei film che con maggior efficacia ha aperto la strada alla Nouvelle Vague: racconta le giornate di un intellettuale di Parigi che si dà a piccoli furti come sfida alla vita. In questo film lo stile di Bresson si scompone in inquadrature, sequenze e movimenti di macchina imprevedibili che confondono la cronologia degli avvenimenti, e inaugurano un nuovo modo di fare cinema.
Nel 1962, con Il processo a Giovanna D’Arco (Premio speciale della giuria a Cannes) Bresson mette in scena la storia dell’asceta più celebre di Francia. Con Au hasard Balthazar (1966) il suo cinema arriva ad una svolta, rompendo definitivamente la linearità della gran parte dei suoi film precedenti e adottando uno stile polifonico, che gli permette di raccontare parallelamente le vite di più personaggi che ruotano intorno allo sguardo puro ed indifeso di un asino, Balthazar, impotente e inerme di fronte al male che lo circonda.
Questo punto di vista “innocente” viene affidato, nel film successivo, Mouchette. Tutta la vita in una notte, sempre tratto da un romanzo di Bernanos, a Mouchette, una ragazzina che vive una situazione di estrema povertà e solitudine.
Dopo essersi ispirato a Dostoevskij in Così bella così dolce (1969, da La mite) e Quattro notti di un sognatore (1971, da Le notti bianche), negli anni ’70 Bresson continuò a produrre opere significative, come Lancillotto e Ginevra, film dal budget importante e dall’andamento del tutto destrutturato, e Il diavolo probabilmente, Orso d’argento a Berlino, dove vengono esaltati i temi cardine della sua poetica: la ricerca d’amore e la sua delusione, l’orgoglio e la disperazione. L’Argent, del 1983 è il suo ultimo film. Tratto da un racconto di Tolstoj e incentrato sul tema del denaro come malattia e corruzione dei rapporti umani, esplora, senza lasciare spazio ad alcuno spiraglio di speranza, la corruzione morale in un mondo guidato dall’avidità.