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Cinema e Shoah: un aggiornamento

Come ogni anno,  il 27 Gennaio 2016 si celebra il Giorno della Memoria, la ricorrenza internazionale per commemorare le vittime dell’Olocausto: il tema continua ad essere fondamentale, ed il cinema, anche quest’anno, non si tira indietro. CG Entertainment distribuirà a breve due film (adesso in sala) che affrontano il tema da due diversi punti di vista, entrambi comunque destinati a scuotere lo spettatore. Il labirinto del silenzio (in sala con Good Films), il film d’esordio dell’italo-tedesco Giulio Ricciarelli, affronta il tema della rimozione della memoria, ricostruendo la storia dell’eroico lavoro a fine anni ’50 del giovane avvocato Johan Radman (interpretato da Alexander Fehling), per trascinare alla sbarra quei soldati che si macchiarono di efferatezza e crudeltà ad Auschwitz: il procuratore deve affrontare un poderoso muro di omertà perché molte persone, seppur coinvolte, nel pieno periodo del boom economico caratterizzato da positività e speranza nel futuro, preferiscono insabbiare piuttosto che fare chiarezza su responsabilità vere o presunte. L’altro film in questione è Il figlio di Saul (in sala con Teodora Film), candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero, film d’esordio dell’ungherese Làszlò Nemes, già assistente di Béla Tarr: una pellicola potente, che affronta il tema più da vicino ambientando la vicenda nell’inferno di un lager e puntando la macchina da presa sul primo piano di Géza Rohrig, un sonderkommando con il compito di seppellire le vittime del campo di concentramento che entra in collisione con sé stesso ed il sistema quando si trova di fronte il cadavere di un ragazzo che gli ricorda suo figlio.

Ma la storia dell’Olocausto al cinema ha radici più antiche. Attraversando il catalogo CG Entertainment cerchiamo di fare il punto della situazione di una filmografia destinata ad allungarsi, per fortuna, nel tempo.

Il primo modello di film che affronta la rappresentazione dei campi di concentramento è senza dubbio Notte e nebbia (1955) di Alain Resnais (autore della Nouvelle Vague di film come Hiroshima mon Amour, L’anno scorso a Marienbad e più recentemente di Smoking/No Smoking), commissionato dal Comité d’historie e ritirato da Cannes per non turbare i tedeschi,  che  combina immagini documentarie in bianco e nero girate dagli alleati con riprese a colori degli stessi luoghi abbandonati anni dopo, mostrando il contrasto stridente tra l’orrore e la cancellazione dello stesso nelle immagini del presente. Di tutt’altro genere, invece, è il film di finzione di Gillo Pontecorvo Kapò, ambientato per intero in un campo di concentramento, e osteggiato fortemente dalla critica francese (si veda il famoso articolo di Jacques Rivette – Dell’abiezione) per l’utilizzo in chiave spettacolare ed elaborato stilisticamente di immagini esplicite dell’orrore del lager.

In generale il cinema francese, che rimane quello che si è dedicato con più attenzione al tema, privilegia un punto di vista obbiettivo e un pudore reverenziale nella rappresentazione della tragedia dell’Olocausto,  che ha come modello più alto l’opera monumentale di Claude Lanzmann, Shoah (1985) 10 ore in cui l’orrore dei Lager non viene mai mostrato direttamente né con immagini documentarie né fiction, ma viene ricostruito attraverso le interviste di sopravvissuti ai campi di sterminio, come un puzzle della Memoria. L’ultimo degli ingiusti, che riabilita per la prima volta davanti al mondo l’immagine di Benjamin Murmelstein, l’ultimo capo del Consiglio Ebraico di Theresienstadt, “il ghetto modello” nella terminologia nazista, segue questa linea stilistica,  riprendendo un’intervista fatta da Lanzmann nel 1975  ai tempi della preparazione di Shoah e alternandola alle immagini dell’oggi di Theresiendstadt e ad alcune immagini di repertorio, e conferma ancora una volta Lanzmann come un maestro nell’arte della ricostruzione storica su un argomento così delicato come quello dello sterminio degli ebrei.

Per quanto riguarda il cinema italiano, se il tema della Resistenza partigiana al nazi-fascismo ha trovato in capolavori come quelli del neorealismo i suoi eccellenti precursori (Roma città aperta (1946) Paisà (1946) di Roberto Rossellini) ed è proseguita con opere come Il generale della Rovere (1956) sempre di Rossellini e Corbari (1970) di Valentino Orsini fino a opere recenti e molto pregnanti come L’uomo che verrà di Giorgio Diritti (2009) o il documentario di Samuele Rossi La memoria degli ultimi (2013) ci si è avvicinati al tema specifico dell’Olocausto in maniera molto più cauta, inserendo l’argomento all’interno di narrazioni che non lo eleggevano a focus dell’attenzione e ricostruendo i campi di concentramento in maniera più stilizzata. E’ il caso del film di Lina Wertmuller Pasqualino Settebellezze (1976), dove l’esperienza del Lager si inserisce nelle vicende del protagonista, campione di vitalità quanto di amoralità, disposto a tutto pur di sopravvivere, e de Il portiere di notte di Liliana Cavani (1974), dove il centro del racconto è il rapporto morboso  tra un ex vittima dei campi di concentramento ed il suo carnefice.

In seguito ci si è affidati  alla trasposizione di opere letterarie, mediazione eccelsa della narrazione: è il caso di Jona che visse nella balena (1993) di Roberto Faenza, tratto dal romanzo autobiografico dello scrittore Jona Oberski, che mostra la Shoah vista attraverso gli occhi di un bimbo, o de La tregua, dal romanzo omonimo di Primo Levi, diretto da Francesco Rosi nel 1996, che mostra l’Odissea per tornare a casa di un gruppo di italiani sopravvissuti ad Auschwitz.

Se Shindler’s List di Steven Spielberg rappresenta ancora oggi l’esempio più evidente di come il cinema spettacolare abbia inglobato il tema Shoah per restituire un prodotto holliwoodiano DOC, oltre che un film estremamente riuscito, La vita è bella (1997) di Roberto Benigni dimostra che di un tema così forte e tragico si può anche sorridere, se si gestiscono i registri con sapienza (esempio ripreso anche in seguito da film quali Mounsieur Batignole, considerato La vita è bella del cinema francese o dal geniale Train de vie – Un treno per vivere ). Non spetta, bisogna precisarlo però, a Benigni, il primato di aver saputo affrontare il tema dell’orrore nazista con il sorriso sulle labbra: basta ricordare il mitico Charlie Chaplin con Il grande dittatore  (1940) e la geniale commedia dell’altrettanto geniale Ernst Lubitsch To be or not to be – Vogliamo vivere (1942), ma all’epoca in America ancora non si era a conoscenza dell’effettiva catastrofe che si stava svolgendo nell’Europa dominata dal nazismo.

Altri film, invece, ricostruiscono storicamente alcuni episodi della più ampia vicenda, come Rappresaglia di George P. Costmatos (1973) che racconta del massacro delle Fosse Ardeatine,  A torto o a ragione (2001) di Istvan Szabo, che narra la storia di un celebre direttore d’orchestra che durante la 2° guerra mondiale aiutò molti musicisti ebrei, Il falsario – Operazione Bernhard, (2007) che si concentra sulla vera storia del falsario ebreo ingaggiato dai nazisti, Salomon Sorowitsch, Hotel Meina (2007) di Carlo Lizzani, che, tratto dal romanzo di Marco Nozza, si concentra sull’eccidio nazista compiuto ad opera dei nazisti a Meina.

Del tema dell’identità perduta e poi ritrovata trattano due film recenti incentrati su due figure femminili: Anita B.  e Ida. Nel film di Roberto Faenza Anita,  una ragazza ungherese sopravvissuta ad Auschwitz, viene accolta in un villaggio dei Sudeti dall’unica parente rimasta in vita, sua zia, una donna dura, segnata dalla perdita dei suoi cari, che vuole dimenticare tutto quello che è successo e reprime i tentativi di Anita di costruire una memoria condivisa del lutto collettivo della sua famiglia, che poi è quello di un intero popolo.

Ida, invece, ambientato in Polonia e vincitore dell’Oscar come Miglior Film straniero nel 2015, si concentra sulla figura di Anna, una giovane orfana che sta per prendere i voti, e che scopre di avere una zia di nome Wanda, unica sua parente in vita. Prima di compiere un passo così importante per la sua nuova vita e diventare una suora, Anna viene quindi invitata dalla madre superiora del convento in cui vive ad andare a conoscere la zia. L’incontro porterà all’unione di due solitudini, e ad una scoperta sconvolgente per Anna: il suo vero nome è Ida, ed è ebrea. I suoi genitori sono stati uccisi in circostanze misteriose mentre erano nascosti da una famiglia vicina: lei e la zia partono alla ricerca della verità, mentre il futuro di Ida, fino ad adesso così sicura di sé e della sua vocazione, si tinge di nuove aspettative, e, forse, dell’amore.

La grandezza di questo film, già vincitore di numerosi premi internazionali come l’European Film Award per il  Miglior Film, Miglior Regista,  Miglior Sceneggiatura e Miglior Fotografia e in Nomination all’Oscar come Miglior Film straniero, sta, oltre che nella grande cura stilistica (un’impeccabile bianco e nero) nella delicatezza con cui costruisce un doppio ritratto femminile con pochi tratti, affrontando in maniera tangente un tema come quello della Shoa in modo originale e suggestivo.

Corri, ragazzo, corri di  Pepe Danquart (2013), anch’esso tratto da una storia vera, ci racconta l’Olocausto dal punto di vista di un bimbo, il piccolo Jurek, della sua fuga dal ghetto di Varsavia e della sua corsa, in solitaria ed in territori ostili e sperduti, per la sopravvivenza, una fuga che ricorda in parte quella vissuta direttamente dal regista Roman Polanski, che fuggì grazie al padre dal ghetto di Cracovia e si salvò così dai campi di concentramento, autore di uno dei film più importanti realizzati sull’argomento, Il pianista (2002), che ha recentemente affidato alla telecamera dell’amico-regista Laurent Bouzereau il racconto autobiografico della sua esperienza in Roman Polanski – A Film Memoir (2012).

In esclusiva per voi una clip speciale tratta da La vita è bella:

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